Un ruolo da protagonista del “sistema legno” italiano è senza dubbio ricoperto dalla pioppicoltura, che rappresenta la principale fonte di approvvigionamento per molte aziende di prima trasformazione del Belpaese.
La pioppicoltura, infatti, anche grazie al fatto di essere caratterizzata da turni più brevi rispetto ad altri tipi di piantagioni, rappresenta un sistema che ha tante carte in regola per rafforzare la produzione interna di legno. Secondo FederlegnoArredo, infatti, la pioppicoltura garantisce circa il 50% del legname da lavoro di produzione interna.
Per approfondire le maggiori sfide che il settore si trova ad affrontare e per cogliere le principali caratteristiche di un “rinnovato interesse per il settore” abbiamo intervistato Enrico Allasia, imprenditore agricolo di Cavallermaggiore (Cn), presidente della sezione “Risorse boschive e coltivazioni legnose” di Confagricoltura, consigliere nazionale dell’Associazione Pioppicoltori e membro della Commissione nazionale del Pioppo.
Quali sono le principali caratteristiche della filiera del pioppo in Italia e in cosa si differenzia il sistema piemontese?
Si può dire che quella del pioppo è ormai oggi una filiera che si sta consolidando, dopo aver superato un periodo di forte contrazione delle superfici che sono passate da oltre 100.000 ettari negli anni ’80 a circa i 60.000 oggi. Negli ultimi due anni è infatti aumentato il valore del legno in piedi ed è quindi aumentato l’interesse per questo tipo di attività. Non sarà comunque facile ritornare alle superfici coltivate negli anni ’80 ma sicuramente c’è una tendenza è positiva.
La coltivazione del pioppo è un’attività che sconta il fatto di essere “ambigua”: per alcuni aspetti è considerata come foresta, per altri come una coltivazione di tipo agrario. L’esempio più eclatante? Il fatto di non poter essere considerata ai fini della PAC e questo, per colture che occupano un terreno per 10 anni, è un elemento molto negativo.
Per quanto riguarda la situazione in Piemonte, che insieme alla Lombardia è la regione maggiormente interessata da questo tipo di coltivazione, mi sento di dire che la nostra esperienza e storia è stata un esempio positivo anche per altre realtà, anche grazie al disciplinare sull’Ecopioppo, elaborato dal Crea di Casale Monferrato. Anche per questo è necessario lavorare per rafforzare la gestione sostenibile della pioppicoltura e per potenziare la filiera locale tramite accordi e contratti di filiera, che uniscano direttamente il coltivatore e le industrie di trasformazione.
Alla luce di questi elementi, quali sono per lei i principali punti di forza e debolezza del settore?
Uno degli elementi recenti che può essere considerato come punto di forza è l’istituzione dell’Osservatorio nazionale del pioppo il cui lavoro è fondamentale, anche in fase di programmazione: avere una cabina di regia aiuta il settore a evolversi in maniera più armoniosa e coordinata. Oggi, per esempio, sappiamo bene che ci sarà carenza di prodotto nei prossimi 4-5 anni a causa della riduzione delle superfici interessate di cui abbiamo parlato. Un’attività di programmazione con il Ministero, con le Regioni e con gli altri attori della filiera permette proprio di evitare queste situazioni, programmando in modo trasparente e organizzato la crescita del settore.
Un altro importante punto di forza è legato alla possibilità di coniugare usi tradizionali con quelli più innovativi: dalla produzione di carta a quella di compensato, pannelli truciolari e pannelli OSB non dimenticando la possibilità di apertura a nuove possibilità legate a biocarburanti (etanolo) e al recupero dei sotto prodotti tramite la valorizzazione in chiave energetica. Insomma, un uso “a cascata” che può dare al settore nuove possibilità e che al tempo stesso può contribuire alla messa in moto di una filiera davvero sostenibile.
Infine anche la diffusione delle certificazioni di sostenibilità e di tracciabilità sono elementi che possono giocare un ruolo chiave per la ripresa e per il potenziamento dell’intero sistema.
Per quanto riguarda i punti di debolezza, l’elemento principale è quello che sottolineavo prima: le tempistiche. Per il pioppo, di fatto, abbiamo tempistiche “non agricole” in un’attività prettamente agricola. Questo comporta un grande sforzo e di anticipo di spese, soprattutto nei primi anni della coltivazione.
Come è visto lo strumento della certificazione di gestione sostenibile tra i pioppicoltori piemontesi, più grande realtà certificata in Italia per superficie?
Mi sento di dire che la pioppicoltura in generale è un settore che negli ultimi anni si sta impegnando per migliorare le sue performance di sostenibilità, anche attraverso lo strumento della certificazione: indispensabile per assicurare la sostenibilità del metodo di produzione, per incentivare l’uso di diversi cloni (tra cui gli MSA, cioé a Massima Sostenibilità Ambientale) e per garantire la tracciabilità del prodotto. Il fatto che la certificazione sia ormai un elemento quasi fondamentale si evince dal fatto che è inserita come criterio premiante nei bandi regionali.
Ora il passaggio successivo è legato al riconoscimento, anche in termini monetari, di questo valore aggiunto da parte di tutti gli anelli successivi della filiera. Una filiera che potenzialmente può essere 100% italiana e sostenibile.
Servizi ecosistemici della pioppicoltura: a suo avviso c’è sufficiente sensibilità tra i produttori verso questo tema?
Dallamia esperienza, posso dire con certezza che i pioppicoltori che conosco sono più bravi a fare che a pubblicizzarsi. Esistono molti esempi positivi di gestione dei pioppeti anche in termini di valorizzazione dei servizi ecosistemici. Oggi si inizia a far qualcosa ma è necessario lavorare per far conoscere e riconoscere il valore aggiunto che hanno le pratiche di coltivazioni eco-compatibili e quindi generatrici di servizi ecosistemici. È un impegno e un obiettivo che deve essere condiviso da tutti per essere realmente raggiunto.